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🌏🔋⚡🇨🇳 Il Cop26 stimola le fantasie egemoniche della Cina

In questi giorni si tiene a Glasgow la 26esima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (Cop26). I capi di Stato e di governo delle principali nazioni tentano di raggiungere un accordo su un tema tanto evanescente quanto divisivo. Derubricando i macro-mutamenti climatici a fenomeno antropico, le cancellerie occidentali più progredite ed economiciste spingono per una riduzione consistente delle emissioni inquinanti. Ma i Paesi in forte via di sviluppo e dal consistente peso demografico rigettano l’idea di tagli draconiani alle emissioni di CO2, che comprometterebbero la produzione industriale e la diffusione del benessere.

Il portavoce di Pechino, Wang Wenbin, è stato piuttosto critico in materia: “Le emissioni storiche degli Stati Uniti sono otto volte superiori a quelle della Cina”. Per la Repubblica popolare, l’insistita richiesta di “azzerare” le emissioni di CO(tecnicamente impossibile) entro il 2050 altro non è che retorica occidentale volta a colpevolizzare i Paesi in via di sviluppo e a comprimerne le ambizioni economiche. Ma soprattutto è un modo per ostracizzare il principale rivale degli Stati Uniti, frenandone la proiezione di potenza proprio ora che la sua popolazione è ancora relativamente giovane.

Il progressivo invecchiamento demografico della Cina ne limiterà fisiologicamente l’assertività anche militare nei prossimi trent’anni

Il Dragone vuole implementare modelli economici innovativi adesso, prima che la dinamicità imprenditoriale ne risenta. Di qui la postura ambigua di Pechino in materia di transizione ecologica. La Cina è favorevole ai programmi mondiali per la green economy, purché siano implementati al di fuori del proprio territorio. Rifornire il pianeta della necessaria tecnologia green rappresenta un gigantesco affare, ma gli imprenditori locali devono garantirne la produzione di massa a prezzi concorrenziali. Anche inquinando.

Se per l’Occidente le iniziative trattate nel Cop26 rappresentano un rovesciamento paradigmatico e romantico dei rapporti tra uomo e natura, per la Cina è un’imperdibile occasione per operare una rivoluzione geoeconomica. Ovvero per instaurare nuovi rapporti di forza a livello globale in tema di risorse, manifattura e finanza. Grazie alle nuove vie della seta (Bri), l’Impero del Centro punta a legare a sé il resto del mondo, relegando Europa e Nord America a un ruolo periferico.

La battaglia per le risorse

Già trentacinque anni fa (1986), presentando il programma 863, l’architetto del “socialismo con caratteristiche cinesi” Deng Xiaoping lo affermò con chiarezza: “I Paesi arabi hanno il petrolio, la Cina ha le terre rare“. Il celebre statista cinese aveva immaginato il ruolo monopolistico che avrebbe ricoperto la Repubblica popolare nelle tecnologie d’un futuro non troppo lontano. Questi 17 elementi – lantanoidi, ittrio e scandio (15+2) – esercitano un magnetismo resistente a temperature elevate e risultano essenziali per la transizione energetica e lo sviluppo della cosiddetta tecnologia green, dalle pale eoliche ai microchip, dai motori elettrici alle batterie. Ma anche per la realizzazione di semiconduttori e componentistica per la più moderna tecnologia militare (missilistica, aviazione, satelliti).

Gli investimenti precoci nel campo delle terre rare hanno assegnato alla Cina un formidabile vantaggio geoeconomico. Si stima che il Dragone – anche grazie ai ricchi giacimenti nella Mongolia interna – monopolizzi il settore, controllando estrazione, raffinazione e ossidazione di circa l’80% dei preziosi metalli. Benché questi elementi non siano così “rari”, il fatto che non esistano in natura né allo stato puro né in forma concentrata comporta costi economici e ambientali per il loro trattamento difficilmente sostenibili. La Cina è tra i pochi Paesi ha garantire forniture a prezzi accessibili.

Quale futuro per la manifattura?

L’esportazione di terre rare costituisce una delle principali voci della bilancia commerciale cinese. Ma è lo smercio globale di prodotti finiti a interessare maggiormente i notabili di Pechino. La transizione ecologica agognata dai governi occidentali richiede un’imponente sostituzione tecnologica sia nel campo della produzione industriale sia nell’ambito dei consumi privati. L’impossibilità di disporre di terre rare quantitativamente sufficienti e qualitativamente ben trattate spingerà le nazioni concorrenti della Cina a spendere per la ricerca di surrogati, compositi di elementi più accessibili. Questo è la vera posta in gioco agli occhi di Pechino: se nei decenni scorsi era l’Occidente a primeggiare nella realizzazione di prodotti di qualità a scapito dell’arretrato mercato cinese, la green economy offre al Dragone l’opportunità di ribaltare la dicotomia ricco/povero, affermandosi indiscutibilmente nei beni di consumo d’eccellenza. E senza clamore sperimentare tecnologia militare d’avanguardia.

L’interesse della Repubblica popolare per la “reintegrazione” di Taiwan – apertamente proferito da Xi Jinping in occasione delle celebrazioni del centenario del Partito comunista cinese – è legato non solo alla proiezione geostrategica al largo delle proprie coste, ma anche all’affermazione del nuovo modello economico per il XXI secolo. L’isola di Formosa ospita infatti il parco scientifico di Hsinchu, sede della più grande azienda di semiconduttori al mondo, la Taiwan Semiconductor Manifacturing Company (Tsmc). L’”altra Cina” non deve interferire con i programmi industriali di Pechino.

Rivoluzione nella finanza?

La moneta costituisce da sempre un elemento di potenza degli imperi. Nel caso delle valute fiat (monete legali prive di valore intrinseco) l’aspetto fiduciario è tutto. Una moneta vale fintantoché è universalmente accettata. Più è impiegata come unità di compravendita delle risorse essenziali, maggiore è il potere del Paese d’emissione. Se gli idrocarburi hanno contribuito ad accrescere il valore politico del dollaro statunitense in quanto valuta di riferimento delle compravendite internazionali, l’estrazione monopolistica delle terre rare permetterà alla Cina di imporre il renminbi (o “monete alleate”) per l’interscambio dei 15+2 e delle principali tecnologie derivate.

Se un giorno Pechino decidesse di sostituire il dollaro come valuta di riferimento, lo Zio Sam appoggerebbe minaccioso la propria colt sul tavolo dei negoziati.

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