🇺🇸🇺🇦🇷🇺 Ecco perché la Nato ha già perso l’Ucraina
Il ministro della Difesa della Russia Sergej Šojgu ha affermato di fronte al presidente Vladimir Putin che «è accertata la presenza di almeno 120 contractors degli Stati Uniti nel Donbas, nella zona di Avdeevka. Preparano una provocazione con componenti chimici». Il dipartimento della Difesa americano ha immediatamente smentito la notizia: «Completamente falsa».
Perché conta: La Nato ha già perso l’Ucraina, con o senza occupazione russa. Il bluff americano è completamente scoperchiato. Le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti Joe Biden prima e del ministro della Difesa del Regno Unito Ben Wallace poi sul non invio di truppe a difesa dell’ex paese sovietico in caso d’invasione russa sono un’ammissione lampante. D’altronde, dal 20 febbraio 2014 – quando fu rovesciato il governo filorusso di Kiev con la “battaglia di Jevromajdan” – Washington non ha mai preso in considerazione di stabilire basi militari permanenti nell’Ucraina centro-orientale. Per motivi ben chiari a ogni generale o analista di geostrategia delle due potenze talassocratiche.
Il vasto paese slavo si presenta come una gigantesca sacca priva di elementi orografici difensivi, circondata da assetti militari moscoviti – tra cui la missilistica tattica a capacità nucleare – a nord (Brjansk e cuneo bielorusso), a est (Russia sud-occidentale e Donbas), a sud (Crimea e Mar Nero). Concentrarvi truppe alleate sarebbe una mossa alquanto sciocca, indifferentemente dalla quantità o qualità di uomini e mezzi. Anzi: più il numero è elevato, più l’esposizione è maggiore, più le perdite umane sarebbero cospicue. Soprattutto in assenza di un appoggio navale; anch’esso impossibile da implementare nello specchio d’acqua eusino.
Il Mar Nero è un bacino semi-chiuso con un’unica via d’accesso, serrabile artificiosamente con incidenti indotti. Anche la flotta più potente del mondo (quella statunitense), una volta intrappolata, sarebbe vulnerabile agli attacchi costieri. Soprattutto in virtù della posizione centrale dell’ultra fortificata penisola di Crimea. Nemmeno la “nave più potente del mondo” (Zumwalt) sarebbe immune all’affondamento. Si sa: la strategia è sempre sovraordinata sia alla tattica sia alla tecnologia. Qualcuno deve poi aver chiarito al ministro britannico che non siamo più nell’Ottocento e che il “lago russo” non si presta più alla proverbiale “diplomazia delle cannoniere”.
Ecco perché Usa e Regno Unito sono predisposti al solo invio di tecnici informatici militari per approntare le difese in caso di attacco cibernetico dalla Federazione Russa contro le infrastrutture ucraine. Ma è solo una mossa simbolica, nulla di concreto. In caso di reale offensiva, le cybertruppe alleate non potrebbero nulla contro la strumentazione elettro-magnetica russa (misura più plausibile rispetto al dispositivo informatico). Inoltre non potrebbero procedere con contro-attacchi cibernetici nel caso in cui la Russia attivasse lo scudo RuNet (gigantesco intranet nazionale).
Altro elemento che spinge i notabili anglosassoni a non prendere gravosi impegni militari è la consapevolezza che diversi membri della Nato non adiacenti geograficamente alla Russia – e magari persino in buoni rapporti – sarebbero totalmente contrari al coinvolgimento militare in un paese non aderente al Patto Atlantico. Generando quindi spaccature interne a un fronte che si vuole compatto. Washington e Londra sono molto più propense a fortificare l’asse Danzica-Costanza, anche mediante l’invio di nuove truppe in Romania. Non si sprecano sul continente europeo risorse meglio impiegabili in altri teatri mondiali.
Tra le opzioni studiate dalla Casa Bianca vi è l’invio alle Forze armate ucraine di nuove forniture di armamenti pesanti, il cui pagamento non può essere dato per scontato. Ma lo smacco non è nemmeno questo: la fornitura potrebbe trasformarsi infatti in una consegna di tecnologia preziosa al futuro occupante russo. Secondo un recente sondaggio dell’Istituto internazionale di Sociologia di Kiev solo il 50,2% della popolazione sarebbe disposta a prendere una posizione in caso di invasione russa e solo il 33,3% sarebbe disposta a imbracciare le armi (il resto della metà si limiterebbe a manifestare).
Per praticare una vasta azione militare contro l’Ucraina, al Cremlino manca però la cosa più importante: un valido casus belli. Ma nelle stanze moscovite non mancano né l’inventiva né il senso dell’ironia. Costruire un pretesto legittimante si può: basta copiare le modalità diplomatiche impiegate dagli americani per giustificare gli interventi in Iraq e Siria. Insinuare il sospetto impiego di armi chimiche (che uccidono tanto quanto quelle tradizionali) contro i residenti con passaporto russo del Donbas potrebbe “obbligare” la Federazione all’intervento difensivo al di fuori dei propri confini, nel pieno rispetto dei dettami costituzionali.
La guerra – che forse non scoppierà – è già concettualmente vinta da Mosca. Vladimir Putin ha condotto una partita esemplare: dapprima ha arroccato il Cremlino, poi ha posto la regina Crimea in stato di muovere in ogni direzione (via terra e via mare), ha mosso l’alfiere Bielorussia e infine ha praticato uno scacco diplomatico, che può rivelarsi matto in pochissime mosse. Ne sapremo di più all’inizio di gennaio 2022.