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Corruzione e proteste in Romania

Domenica pomeriggio, a seguito delle proteste diffuse in tutta la Romania, il governo romeno si è sentito in obbligo di ritirare l’ordinanza d’urgenza 13/2017 (ribattezzata “salva-corrotti”) varata quasi di nascosto martedì sera 31 gennaio.

I moti di protesta tuttavia non sono cessati: domenica sera in Piazza della Vittoria a Bucarest si è radunata una folla oceanica di circa 250.000 pacifici manifestanti.

Il famigerato provvedimento prevedeva modifiche al Codice penale e al Codice di procedura penale volte a decriminalizzare reati come la corruzione e l’abuso d’ufficio qualora fosse avvenuto tramite l’emissione di atti normativi e l’illecito non superasse la cifra di 200.000 lei (circa 44.000 euro).

Ciò che più ha scosso la società civile romena è il fatto che l’esecutivo di Sorin Grindeanu abbia cercato di sostituirsi al legislatore in materia di legalità, evitando il normale dibattito pubblico, noncurante dei grandi sforzi nella lotta alla corruzione effettuati dal paese nel corso degli ultimi anni. Un’ordinanza d’urgenza emessa quasi di nascosto e all’insaputa di molti ministri ha quasi cancellato con un colpo di spugna i tanti e innegabili progressi compiuti.

Lo stesso ministro per il commercio e l’imprenditoria Florin Jianu, annunciando le proprie dimissioni, ha dichiarato che “la Romania non merita quanto sta accadendo” e che egli stesso non era stato informato del tema in discussione al consiglio dei ministri.

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Il decreto legge tanto contestato è stato sì ritirato, ma il governo persevera nei propri propositi tramite le normali vie parlamentari. Il ministro della giustizia Florin Iordache ha infatti presentato un disegno di legge del tutto simile, che sarà aperto al dibattito pubblico e parlamentare per trenta giorni. Inoltre, qualora il parlamento a maggioranza governativa respingesse l’ordine d’urgenza 14/2017 che lo abroga, il decreto legge rientrerebbe cavillosamente in vigore e produrrebbe da subito i propri effetti.

 

Sembra quasi che l’esecutivo miri ha guadagnare tempo, lasciando che il numero dei manifestanti cali fisiologicamente e i moti di protesta si spengano per conto loro. Il governo Grindeanu non pare intenzionato ad un cambio di rotta.

Le ben più esigue manifestazioni pro-governo inscenate dai militanti del partito social-democratico (Psd) di fronte alla residenza presidenziale di Palazzo Cotroceni – le quali chiedono le dimissioni del presidente Klaus Iohannis – possono essere interpretate come un tentativo di generalizzare il problema della corruzione, facendo di tutta un’erba un fascio. Il tentativo è quello di disperdere il malcontento generalizzato su più fronti, sviando l’attenzione che l’opinione pubblica ha finora posto sul merito dei provvedimenti normativi.

Il tema della legalità è risultato centrale già alle recenti elezioni parlamentari: la disaffezione della popolazione nei confronti della classe politica romena è stata la causa principale di una bassissima affluenza alle urne: meno del 40%. Un gran vantaggio per il Psd di Liviu Dragnea, che ha potuto contare su una massiccia mobilitazione di partito e vincere a larga maggioranza in quasi tutte le circoscrizioni.

Lo stesso carismatico Dragnea – artefice della ricomposizione di un partito frammentato e architetto della vittoria del Psd – è macchiato da una condanna penale di due anni con sospensione per frode elettorale. Per legge, gli è dunque preclusa la carica di premier.

Durissimo è stato lo scontro con il presidente Klaus Iohannis: per giorni i social-democratici hanno insistito affinché la carica di primo ministro fosse assegnata proprio a Dragnea in quanto legittimo vincitore delle elezioni. Di tutt’altro avviso, Iohannis si è fatto garante del rispetto puntiglioso della legge rifiutandogli la nomina nonostante l’investitura popolare. Il Psd ha dunque proposto in successione personalità politiche prive di esperienza a livello nazionale e docili alle direttive di partito: Sevil Shhaideh e Sorin Grindeanu. Il secondo ha ottenuto la carica il 30 dicembre 2016, ma si tratta di un ruolo di facciata: il comando è indubbiamente detenuto da Liviu Dragnea a cui il neo-premier potrebbe ben presto cedere il posto. Sono molti gli analisti politici locali che prevedono nei prossimi mesi l’elaborazione di una legge ad personam che elimini la limitazione giuridica che impedisce al leader social-democratico di accedere al governo.

Il presidente della repubblica manifesta tutto il proprio sostegno all’indignazione popolare. Nel discorso che il 7 febbraio ha tenuto di fronte al parlamento, Iohannis ha accusato il Psd (e gli alleati liberal-domocratici – Alde) di avere più a cuore la salvezza dei corrotti che il bene del paese e che i primi provvedimenti dopo la vittoria alle elezioni hanno riguardato i guai giudiziari della classe politica. Ha comunque rigettato l’idea di tornare alle urne, invitando l’esecutivo a governare “con trasparenza alla luce del giorno; non di notte, non di nascosto”. Di tutta risposta, i parlamentari del Psd hanno abbandonato l’aula solo cinque minuti dopo l’inizio del discorso gridando “Vergogna! Hai spaccato il paese in due!”.

Già il 24 gennaio, prima delle imponenti proteste, il capo dello stato ha dato il via alla procedura per indire un referendum nazionale che abbia come tema la continuazione della lotta alla corruzione e il consolidamento dell’integrità della funzione pubblica. Il quesito referendario non è ancora stato formulato, ma le commissioni Giustizia di camera e senato hanno dato parere favorevole martedì 7 febbraio.

Parallelamente alla battaglia nazionale sulla legalità, si assiste ad un duello genuinamente personale tra due grandi rivali politici, Dragnea e Iohannis.

Incalzato da Bruxelles, il ministro degli esteri Teodor Meleşcanu ha riferito al vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans e a Lady Pesc Federica Mogherini che si tratta di “un chiaro movimento di contestazione dei risultati elettorali, il quale ha lo scopo di sostituire illegittimamente e illegalmente un governo designato dal parlamento”. Il capo della diplomazia romena ritiene inoltre che i manifestanti siano “organizzati e spinti da certi politici che stanno al Parlamento europeo. Punto.”

Tali dichiarazioni fomentano le preoccupazioni già espresse dall’ex presidente ed ex funzionario della “Securitate” Traian Băsescu sul fatto che una situazione tanto concitata possa costituire l’inizio di una guerra ibrida, seppur tale scenario rimanga improbabile.

Una cosa è abbastanza chiara: qualora la Romania facesse passi indietro nel processo delle riforme e della lotta alla corruzione concordato con le istituzioni comunitarie, perderebbe la rispettabilità e la fiducia conquistata negli ultimi anni agli occhi di Bruxelles. Se già Bucarest vede affossato l’obiettivo nazionale di ingresso nell’area Schengen (principalmente a causa della crisi dei migranti), un ulteriore calo di peso negoziale potrebbe portare, a partire dal 2020, ad una riduzione drastica dei preziosi fondi di coesione europei, i quali garantiscono da anni al paese una sostenuta e perdurante crescita economica (+4,1% del Pil nel 2016).

Non solo, la mancanza di trasparenza nell’amministrazione pubblica e il clientelismo partitico costituirebbero certamente una zavorra per gli investimenti diretti esteri nel paese a causa della concorrenza sleale che verrebbe più agevolmente praticata dalle imprese legate ai potentati politici locali. Gran parte della popolazione sembra essersene già accorta.

Non è da escludere che la riduzione dei fondi comunitari possa spingere Bucarest a rivedere le proprie politiche di ausilio finanziario a vantaggio di Chișinău e ad affossare i progetti infrastrutturali di collegamento con la nazione sorella (strade, gasdotti, tralicci).

I moti di protesta contro la corruzione dei partiti potrebbero estendersi anche alla Repubblica Moldova e alla Bulgaria, dove si è già assistito a qualche tentativo locale di cavalcare l’onda dell’indignazione romena.